Le formE del mito
La trama della mostra “Il Grande Teatro delle Civiltà” prende avvio dai quattro angoli esterni dell’edificio del Palazzo della Civiltà Italiana, dove sono poste le quattro Forme del mito (1983): Il Potere (AgamEnnone); L’ambizione (Clitennestra); La macchina (Egisto); La profezia (Cassandra), sculture che furono originariamente realizzate come macchine sceniche per il ciclo teatrale dell’artista Emilio Isgrò ispirato all’Orestea del drammaturgo greco Eschilo e svoltosi sui ruderi della piazza della cittadina siciliana di Gibellina distrutta dal terremoto.
Inserendosi come quinte sceniche fra il Palazzo della Civiltà Italiana, il paesaggio naturale e la comunità urbana circostante, le quattro sculture agiscono nuovamente da “casse di risonanza della tradizione, come monumenti nella piazza stessa dove si recita nuovamente la tragedia”. Le strutture primarie dei solidi geometrici a cui le sculture fanno riferimento (piramide, cono, parallelepipedo) sono riplasmate in un groviglio di segni che rinviano all’interferenza umana sulla natura e nella storia già raccontata da Eschilo. Ridisegnando inoltre l’architettura stessa del Palazzo della Civiltà Italiana come un archetipo che però è possibile modificare, le quattro Forme del mito ri-significano l’edificio, trasformando il cosiddetto “Colosseo Quadrato” – uno dei simboli del Modernismo e del Razionalismo italiano e dell’architettura di epoca fascista dell’EUR – in un’opera aperta, reinterpretabile come un’opera teatrale rimessa in scena, senza un’interpretazione definita una volta e per sempre.
LE OPERE-COSTUMe
L’azione teatrale con cui la mostra prende avvio all’esterno del Palazzo della Civiltà Italiana appare subito ribadita dalla presentazione speculare, nel vestibolo di ingresso, di due opere-costume, originariamente realizzate dall’artista per due diverse opere teatrali: Costume di Didone (per La tragedia di Didone, regina di Cartagine di Christopher Marlowe, messa in scena sui ruderi di Gibellina il 6 settembre 1986) e Costume di Creonte (per Oedipus Rex di Igor’ Stravinskij rappresentata in piazza Jacopo della Quercia a Siena il 19 agosto 1988). I due costumi-scultura, prodotti con materiali scultorei abbinati a materiali effimeri come la rafia e il tessuto, richiamano sia l’attuale funzione dell’edificio quale sede internazionale della ricerca creativa e della conservazione archivistica di uno dei più importanti brand di moda contemporanei, sia le antiche iconografie e tecniche tradizionali delle opere d’arte africane e asiatiche che riattivano il racconto delle storie leggendarie di Didone e Creonte.
LE BATTAGLIE E MOVIMENTO IN PIENA ARIA E NEL PROFONDO
La mostra asseconda la partizione binaria del percorso espositivo in due sale speculari, con una sala retrostante di raccordo, intendendole come i due atti di un’opera teatrale e un intermezzo centrale. Nei due ambienti principali sono allestite simmetricamente due opere ambientali di grandi dimensioni ma di colore opposto, l’una nera (Le Battaglie, 1995) e l’altra bianca (Movimento in piena aria e nel profondo, 1996-1997).
Caratterizzata da forme angolari, spigolose e taglienti (denti, frecce, lance…) e diversi materiali (grovigli di corde, cunei, bulloni…) – il cui rilievo dà un senso forte di dinamicità e confusione, creato dall’incontro e dallo scontro di tutti questi elementi in movimento –, Le Battaglie evoca, quale sua matrice, uno dei capolavori del Rinascimento italiano e degli studi sulla prospettiva, il trittico della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Pomodoro ne innerva però il ricordo con la tensione della propria astrazione espressiva e materica, formatasi negli anni cinquanta del XX secolo dall’incontro fra memoria dell’Espressionismo primo novecentesco, pratica dell’Informale a lui coevo e intuizione di una possibile sintesi architettonica e scultorea che si sarebbe precisata solo negli anni sessanta, con il Minimalismo. Una battaglia quindi non solo formale, ma anche spaziale e temporale, che attraversa luoghi ed epoche, per giungere di fronte a noi e coinvolgerci attivamente in essa.
Movimento in piena aria e nel profondo è costituita da una duplice curva che comprende dinamicamente in sé sia l’evocazione dei grandi spazi celesti (“è curvo l’orizzonte secondo la geometria non euclidea della modernità”, come dichiara Pomodoro) sia di quelli terrestri. L’artista vi mette in scena l’agire scultoreo inteso come uno “scavo dentro la complessità delle cose” che si solidifica, come in una rappresentazione fossile, comprimendo la prospettiva geometrica rinascimentale e quella moderna e modernista divenuta esperienza diffusa e pulviscolare (Impressionismo e Post-impressionismo), punto di vista multiplo e interconnesso (Cubismo) o slancio onirico (Surrealismo), fino ad acquisire la consapevolezza critica e autocritica di poter curvare quantisticamente il tempo e lo spazio, possibilità a cui questa quinta scenica (“in piena aria e nel profondo”) sembra dare appunto rappresentazione.
GRANDE TAVOLA DELlA MeMORIA
E IL CUBO
Nella sala che gravita intorno a Le battaglie, in cui riverbera la dominante scura, sono presentate anche altre due opere, fra le più importanti nel percorso di ricerca dell’artista, che approfondiscono entrambe il racconto della sua formazione e dei suoi primi sviluppi. Dopo le prime Tavole e le prime Porte, la Grande tavola delLa mEmoria (1959-1965) costituisce l’esito di una estesa riflessione sulla tecnica del bassorilievo in cui la sensibilità informale è filtrata, strutturalmente e concettualmente, dalla memoria di una “tecnica antichissima” quale quella della lavorazione dell’osso di seppia. Il risultato è un palinsesto denso di segni che invitano a rallentare il tempo e ad amplificare la memoria.
“La superficie della scultura richiede una visione lenta e ravvicinata dei singoli dettagli, anche se poco prima hai visto la forma monumentale nel suo insieme e hai percepito il ritmo complessivo del racconto.”
Arnaldo PomodoroAnalogamente Il Cubo (1961-1962) coincide con l’avvio di una ricerca da parte dell’artista sulle forme elementari della geometria euclidea e sul tema geometrico dei solidi, insidiati però dal continuo frazionamento imposto dai segni che li percorrono, e che ricorrerà in tutta la sua ricerca successiva contribuendo a definirne il personale minimalismo espressionista – o astrazione materica – che corrisponde a un’immersione nella codifica stessa dell’espressione linguistica e storica.
ROTATIVA DI BABILONIA
E TRACCE
Accogliendo la ciclicità costitutiva di Continuum (l’opera presentata nel finale della mostra a suggerire la possibilità di un eterno ritorno in cui fine e inizio si congiungono), Rotativa di Babilonia (1991) funge da raccordo fra le due sale principali rendendole quasi intercambiabili: l’opera, allestita in esterno ma visibile attraverso le vetrate del Palazzo della Civiltà Italiana, suggerisce la possibilità di un percorso che può andare avanti e indietro nel tempo e nello spazio. Nell’incorporare il movimento spazialmente e temporalmente circolare e continuo delle tracce lasciate sul terreno da una ruota, Rotativa di Babilonia costituisce anche un intermezzo che contrassegna il passaggio da un atto all’altro di un’opera teatrale, indicando la continuità fra un atto (sala) ipoteticamente precedente e un atto (sala) ipoteticamente successivo. Come afferma ancora Pomodoro: “Io vedo il movimento con il suo strumento originario: la ruota, origine di energia e misura del tempo. La prima ispirazione risale al 1961, quando, durante un viaggio in Messico, vidi un vecchio calendario azteco e realizzai la mia prima ruota”.
Lungo il corridoio interno è allestita la serie delle Tracce I-VII (1998), ventuno rilievi calcografici in tre varianti di colore (nero, bianco e ruggine). Dichiara Pomodoro: “Ho realizzato una lastra in negativo di materiale plastico di alta resistenza, come un marchio violento e pressante che, abbassandosi sul foglio con la forza del torchio, lo increspa di quei segni che, quasi fossero veri rilievi, conservano la forza e la severità del bronzo”.
CONTINUUM
Nella sala al cui centro è posto Movimento in piena aria e nel profondo, in cui riverbera la dominante chiara, è presentata anche l’opera che idealmente rimette in circolo la mostra, permettendole di ribaltare il suo finale e di ripartire dal suo incipit.
In Continuum (2010), come dichiara Pomodoro stesso a proposito del valore propriamente antologico dell’opera, “compaiono le grafie semplificate degli inizi: volevo tornare a occupare interamente una superficie grandiosa con i miei primi segni. Riprendendo e approfondendo le origini del mio lavoro, le prime esperienze di incisione su piccole tavole, ho creato una sorta di tracciato infinito con i codici e l’inventario di tutta la mia ‘scrittura’. E la scrittura, di per sé, è continua: una riga dopo l’altra, sia che si tratti di scritture alfabetiche, che di scritture ideografiche”. Antologizzando e rendendo affini a sé “tutti i segni dell’uomo, soprattutto quelli arcaici: dai graffiti dei primordi alle tavolette mesopotamiche, quelli fatti per tramandare memorie e racconti”, Pomodoro rintraccia in quest’opera summa “una illeggibile lingua perduta”, che egli identifica nella “continuità” appunto con le sue prime opere e con quelle ancora a venire.
OSSO DI SEPPIA
Su una terrazza del Palazzo della Civiltà Italiana è collocata, fuori dalla mostra e quindi destinata a essere vista da chi frequenta le aree di lavoro dell’edificio, l’opera Osso di seppia (2011-2021), elemento che compone l’Ingresso nel labirinto della Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano. L’osso di seppia rappresenta la matrice, umile quanto universale, di tutte le opere scultoree dell’artista, ispirazione e riferimento già presente in natura a cui l’artificio del manufatto e delle teorizzazioni artistiche costantemente riconduce.
Scrive Pomodoro: “Ho iniziato il mio lavoro di scultore grattando l’osso di seppia e incidendolo con una serie di piccoli segni. Mi è venuta poi l’idea di usare la sagoma degli ossi stessi e di ingrandirli per farli diventare scudi, scettri, figure emblematiche. A volte mi sono concentrato a studiare tutte le strutture lamellari dell’osso; e allora scopri che ve ne sono alcuni che hanno una tessitura interna straordinaria alla quale ci si può ispirare. Lo scavare l’osso di seppia per ritrovare queste venature suggerisce talvolta forme magiche: e tu non hai fatto quasi nulla ed è l’osso di seppia che ti regala suggestioni e immagini che sono insieme frammenti di spiaggia, lembi del Mediterraneo”. Emblematicamente l’opera è quindi esposta all’esterno e sottratta alla visione diretta, come visione immaginata o portata via dal vento, ma fissa nella mente di chi, come Pomodoro, ha sempre inteso la scultura quale atto di comprensione del mondo, dei segni, delle forme e dei materiali delle sue, infinitamente possibili, civiltà.
LA MOSTRA NELlA MOSTRA
Come una doppia “mostra nella mostra”, nelle due sale principali sono presentati materiali progettuali e documentari, perlopiù inediti, allestiti in due strutture modulari che evocano la doppia dimensione dello studio e dell’archivio: una rastrelliera e quattro cassettiere, apribili e consultabili da parte del pubblico. Il percorso di conoscenza di questi materiali si articola in tre sezioni:Segni e parole. Les livres de peintre: selezione dei più importanti libri d’artista esposti nelle bacheche sopra le cassettiere;La ricerca tra segno, forma, spazio-tempo: selezione dei documenti dell’archivio nelle cassettiere (schizzi, disegni, modellini, lettere, fotografie, cataloghi ecc.) organizzati secondo cinque aree tematiche trasversali alla cronologia e alla tipologia delle opere e dei materiali;Luoghi del progetto: selezione di un nucleo dei progetti più significativi, attuati o meno, ciascuno raccontato attraverso materiali di studio e documentari, posti sui pannelli della rastrelliera.
Photography: Agostino Osio